Questo mio scritto è frutto delle riflessioni che ho via via maturato in un periodo della mia vita in cui, vivendo all’estero, la maggior parte dei miei pazienti parlavano una lingua diversa dalla mia ed il lavoro analitico si è svolto nella loro lingua madre, inglese o francese.
Il lavorare non nella mia lingua madre ha fatto fece nascere in me moltissime domande in quegli anni: come avrei potuto comprendere i miei futuri pazienti stranieri visto che io ho imparato l’inglese ed il francese a scuola e poi ne ho approfondito la conoscenza ma non sono madrelingua in nessuna di esse? sarei stata capace di comunicare, comprendere e farmi comprendere? la relazione tra di noi sarebbe stata meno profonda, meno personale, meno autentica a causa di ciò? sarei stata capace di capire le differenze culturali che essi mi proponevano oltre a quelle linguistiche? e quali implicazioni tutto ciò avrebbe avuto sul transfert( proiezione sull’analista di emozioni e dinamiche appartenenti al mondo interno del paziente)?
Quello che emerse nel divenire del lavoro con i miei pazienti stranieri fu che la comprensione del loro vissuto non si fece strada in me con la traduzione e/o comprensione di ogni parola che essi enunciavano ma grazie a come io mi sentivo nella relazione con loro.
Ad esempio Tom un bambino inglese di sei anni si dilungava per intere sedute a descrivermi dei mostri verdi che lo attaccavano e lo spaventavano molto. Il tema dell’aggressività si materializzò immediatamente in un colloquio con i genitori in cui emerse il loro alto livello di rabbia reciproca che si manifestava con urla e sfuriate anche davanti ai figli. Eppure anche dopo aver lungamente lavorato con Tom sul tema dell’aggressività della famiglia e sulla sua, egli continuava a dilungarsi nella descrizione di questi mostri. Più Tom si soffermava sui loro particolari più io cercavo di decifrarne tutti i termini più sentivo di non riuscire a comprendere chi erano, cosa significavano per lui. Ad un certo punto irruppe dentro di me una sensazione di forte solitudine che mi accompagnava nei nostri incontri e che mi resi subito conto non aveva niente a che fare con la nostra differenza di lingue. Piuttosto riguardava uno straniero nella relazione, la solitudine, che bisognava tradurre in un linguaggio comprensibile per entrambi. Dissi a Tom che mi sentivo molto sola nelle nostre sedute nonostante fossi lì con lui e gli chiesi se anche a lui capitava di sentirsi così nella sua vita. Le mie parole attrassero la sua attenzione, distogliendolo dalla relazione con i mostri e Tom mi rispose affermativamente. Proseguii dicendogli che forse lui si rifugiava in un mondo tutto suo con i suoi mostri perché era molto arrabbiato. Tom mi guardò e mi disse che avevo capito tutto.
Nel lavorare con i miei pazienti stranieri compresi anche che dovevo tenere in debita considerazione le differenze culturali veicolate dalle differenze linguistiche.
Ho avuto dei pazienti irlandesi che mi hanno portata a rileggere quello che io, nella mia cultura, considero abuso di alcool in un’ottica sociale diversa, non solo legata a problemi di dipendenza. Nella cultura irlandese il “bere tanto” fa parte dello stare insieme, del divertirsi. È una tradizione trasmessa dalle famiglie.
I miei pazienti, vivendo all’estero, si ritrovano tra connazionali, anche in famiglia e con i bambini e si ubriacavano per divertirsi insieme, per sentirsi parte del loro mondo d’origine.
Con questi pazienti mi sono resa conto di quanto dovevo essere delicata e diversa nell’affrontare la questione “alcool”. Tutte le tematiche riguardanti la dipendenza e l’abuso di sostanze erano presenti in loro ma c’era anche un altro elemento “nuovo”, culturale, che come terapeuta dovevo imparare a conoscere per modulare il mio pensiero.
Gli effetti dannosi della sostanza sul corpo non potevano affacciarsi alla mente dei mei pazienti, non esistevano.
Anche solo fantasticare un’alternativa di divertimento era un pensiero molto difficile da essere preso in considerazione dai miei pazienti perché voleva dire tradire la propria cultura e paese ed essere escluso dalla comunità.
Voleva dire diventare straniero a se stesso, vivere in una zona grigia di non-appartenenza.
In un contesto di un lavoro analitico multilinguistico l’analista è inoltre maggiormente attento agli aspetti non verbali della comunicazione.
La narrativa del paziente viene così ascoltata non solo dal punto di vista del significato ma anche da quello sonoro e poetico, cogliendo così più facilmente quelle dissonanze emotive e corporee esprimenti le voci inconsce del paziente.
Il linguaggio può essere considerato un’esperienza condivisa, relazionale, ci permette di trasmettere all’altro ciò che noi sentiamo, pensiamo e viceversa. E ci aiuta a capire se l’altro ci comprende o cosa pensa.
L’aspetto linguistico è sì un aspetto della relazione ma non il più importante.
Esistono anche altri canali di comunicazione.
Prendiamo per esempio in considerazione la relazione neonato-mamma.
È un fatto ormai noto che le interazioni tra la mamma ed il suo bambino, nei primi giorni, mesi di vita, sono possibili in quanto, immediatamente dopo la nascita, è già presente nel bambino una capacità/necessità di stare in relazione che precede la sua possibilità di esprimersi verbalmente.
È un sistema molto efficiente di scambi emozionali essenzialmente non verbali, ma facciali, vocali e gestuali, un sistema che rimane attivo poi per il resto dell’esistenza.
Giorno per giorno il neonato, che si esprime attraverso il pianto ed il suo corpo, e la sua mamma cercano di sintonizzarsi cioè di creare un linguaggio comune fra di loro che permetta ad entrambi di sentirsi riconosciuti, compresi ed amati.
Credo che con i miei pazienti stranieri, ma non solo con quelli stranieri, si sia messo in moto questo tipo di “regolazione affettiva” che non è legata al verbale ma al preverbale e trae le sue origini dalla diade madre-neonato.
Mi sono incontrata con loro in uno “spazio transizionale” simile, nella sua costruzione, alle dinamiche che intercorrono tra un bambino che sta imparando a parlare e la sua mamma.
La mamma dice una parola, il bambino la ripete a suo modo ed il suo balbettio costituisce la sua interpretazione di come la mamma gli ha presentato il mondo. La mamma, a quel punto, integra nel proprio modo di parlare il balbettio del suo bambino.
La lingua diventa materna in quanto contiene, delinea le sensazioni e le esperienze della mamma ma anche del suo bambino.
In studio l’analista interpreta, il paziente balbetta come risposta all’interpretazione, il terapeuta reinterpreta, trasforma quanto il paziente ha detto e si produce un significato nuovo.
Terapeuta e paziente arrivano così a parlare la stessa lingua.
L’analista come una madre che insegna una nuova lingua al paziente, la lingua per decifrare il suo mondo interno.
Senza dimenticare che anche la silente presenza della madrelingua e della cultura del terapeuta, come alterità, possono influenzare l’incontro.
Straniera non è tanto la lingua che il paziente parla, ma quella parte che ognuno di noi ha dentro di sé, che richiede uno spazio ed un interprete per poterla accogliere, significare e trasformare.